PUO' sembrare impossibile che un uomo che ha sbagliato parrucchiere praticamente dagli anni '60, che aveva un daltonico feticista come sarto e un bounty killer come calzolaio possa essere un genio.
Ma James Brown lo è stato. Di sicuro.
Il contributo alla musica contemporanea dato dal musicista di Barnwell è tra i piu' importanti in assoluto. Con James Brown il soul cambia faccia ed anima e il sound si rivolge al budello e alla mente.
D'un colpo Brown compie un'operazione semplicissima e rivoluzionaria: annulla ogni traccia di melodia e resetta il tracciato armonico.
I manuali di musica insegnano che accanto a queste due componenti esiste una terza, secondo me la piu' importante; il ritmo.
Praticamente James Brown e la sua band, nelle varie ma non variatissime incarnazioni, punta il centro focale del suo linguaggio sulla pulsazione ritmica, concentrandola sulla batteria. Non è un caso che i suoi batteristi gli siano stati fedeli negli anni. Jabbo Stark e Clyde Stubblefield hanno portato le allucinazioni funk del Padrino del soul a livelli di rarefazione esasperata. Pochissime rullate, da contare sulle dita di una mano, scansione del ritmo funk con scarti e variazioni sincopate ripetute allo sfinimento. Pochi artisti come Brown necessitano del fade out non solo come escamotage per le lacche viniliche ma per evidenziare l'ETERNITA' dell'esecuzione. I brani di Brown potevano durare l'infinito e conservare la stessa identica intensità, come un'emozione che non si esaurisce, come la visione della faccia di Dio.
Con questo espediente e poggiando su un tessuto modale ben piu' magro di qualunque brano jazz non solo per via dell'accordo solitario ma per l'intenzione, le sataniche jam vocali del Padrino ben si innestavano nel tessuto urbano dell'America dei '60, '70 e 80 (Livin'in America...in fondo è un anthem tra i piu' perfetti di quel tempo).
L'orchestra di Brown rivitalizzava e contestualizzava il Jungle Ellingtoniano in accordo con le moderne Ford mustang o Gran Torino, le strade di Harlem fitte di nuove immondizie, la versione black della tenuta hippie, molto piu' erotica e realista di quella bianca.
In effetti c'è solo una parola per definire la musica di Hard Worker: sesso.
Così ne era ricca la sua musica tanto quanto ne era avido il leader, senza scrupoli nè preliminari.
I musicisti della sua band ben intendevano la fulminante filosofia browniana: nelle messe del predicatore Bruno Pee Wee Ellis (dal grasso tenore honk degno di un Lockjaw Davis), Fred Wesley dall'agile e rotondo trombone (forse la figura piu' raffinata della frontline dei fiati), Waymon Reed, ottimo jazzista, che usava la tromba come una Colt. St. Clair Pickley, tenorista hard bopper prestato al funk. E i piu' importanti: Jimmy Nolan, l'inventore della chitarra Clank (senza di lui Nile Rodgers non sarebbe lo stesso), Bernie Odun, uno dei tre-quattro bassisti elettrici piu' grandi di ogni tempo e l'immenso Maceo Parker, prima baritonista, poi tenore e infine altista (prima l'alto lo suonava ElDee Williams), il sassofonista piu' campionato della terra, dal geniale uso della sfibrata pentatonica, che univa il graffio della nuova illuminazione ritmica al suono grasso di Cannonball Adderley. In lui il vecchio Sud viene conservato, calso e zuccheroso, sorridente come un piatto di fagioli rossi col riso.
Tra i tanti capolavori di Brown io amo soprattutto un long playing: sembrerà scontato ma non lo è ma per me il gioiello di famiglia resta il live in Augusta nintitolato "Sex Machine" (Polydor 1970). E' il Brown che preferisco, ormai dimentico della canzone, che inventaria e sistematizza nell'apoteosi del ventre il suo concetto filosofico. E davvero, a rischio di sembrare banale, è proprio la tenebrosa, malefica versione estesa di "Get up i feel like a sex machine" ad essere il vertice assoluto del concerto che, nonostante sia mal registrato e mal montato, riesce a far esplodere le sedie di chi non balla come cariche di dinamite.
Musica senza intellettualismi, con l'intelligenza del pene-rabdomante. Lo strillo acuto del maschio nero che viene e gode per se stesso, l'ansia di vivere, scopare e ripetere all'ossessione la stessa medesima qualità di godimento. Le frasi smozzicate di chi è schiavo del coito e della puzza della pelle sudata della donna che si sta lavorando. Un mordi-e-fuggi che non (si) dà tregua.
Nei ghetti è oro colato la felicità e c'è sempre qualche ladro in agguato.
Riascoltate "Big fun" di Miles Davis, un disco premonitore che all'epoca non venne compreso: è basato non sul sound di James Brown, ma su un brano di James Brown, "Cold sweat".
Nel bene come nel male la faccia della musica nera di oggi è stata definita da Brown e dai suoi complici. Chi pensa che l'abbia impoverita non si è reso conto che J.B,thestaroftheshowhardworkermisterdynamitejaaaaaaaaaaaaaaaaaamesbrown è stato il perfetto reporter del suo tempo, del suo paese, della sua razza.
Infatti a Kinshasa era per Foreman....
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